martedì 9 ottobre 2012

2. Cruising (USA 1980) di William Friedkin


Catalizzatore di polemiche come neanche una dichiarazione di Giovanardi, questo cult di Friedkin va ormai giudicato con occhio sereno e sgombro da pregiudizi.
E' vero che il film trasmette un'immagine degli omosessuali tutt'altro che rassicurante, il che è grave soprattutto se si considera che all'epoca dell'argomento si parlava molto meno di adesso, sia al cinema che altrove. Ma l'intenzione di Friedkin, secondo me, non era tanto quella di mettere in cattiva luce la categoria, quanto di dipingere un universo oscuro, infernale e vampiresco in cui il protagonista si trova lentamente a sprofondare: e questo universo – nel film lo si dice e ribadisce abbastanza chiaramente – non è quello dei gay, ma si identifica casomai in un loro sottogruppo molto circoscritto. Del resto, questo sottogruppo sembra aver poco a che vedere con l'omosessualità comunemente (stereo-tipicamente) intesa: i protagonisti delle scene notturne non sono per niente effeminati, e anche il travestitismo trova uno spazio ben limitato...
Tralasciando quindi i discorsi sulla sua presunta impostazione ideologica, dobbiamo chiederci: è un bel film, questo Cruising? E qui è difficile dare un giudizio netto. Un po' per via dei leggendari tagli di 40 minuti imposti alla versione ufficiale, un po' per via delle pressioni e delle polemiche che resero travagliata la lavorazione, Cruising dà l'idea di un'opera incompiuta, per forza di cosa molto allusiva e reticente. Si intuisce di continuo che ci sarebbe stato di più, molto di più da dire. Quasi tutti gli snodi della trama restano sospesi (quali sono effettivamente le motivazioni del killer? Ha davvero compiuto lui tutti gli omicidi? Cosa c'entrano gli arti dispersi nel fiume? Il protagonista diventa effettivamente un omicida a sua volta? Ci sono degli episodi “oscuri” nel suo passato?) e l'effetto finale di questa reticenza non è tanto intrigante quanto fastidiosamente confusionario.Viceversa, ci sono passaggi che sono tirati troppo per le lunghe, snodi della trama che non sembrano avere granché utilità nell'economia del racconto, lungaggini, ripetizioni...
Il risultato è un film sbilenco, che non trova il ritmo giusto ma che fra mille difetti riesce ad azzeccare un'atmosfera malata e inquietante di sicura suggestione. I locali fetish e BDSM perlustrati dal protagonista sono tali covi di violenza e amoralità che quasi non c'è soluzione di continuità con le scene degli omicidi. Il punto è che violenza e amoralità, nel film, sembrano davvero sovrastare tutto: oltre ovviamente al protagonista, la stessa polizia viene raffigurata come un insieme di individui cinici e spietati nel migliore dei casi (il capitano interpretato da Paul Sorvino), violenti e perversi nel peggiore (i due agenti che non disdegnano di arrestare i travestiti per molestarli). L'impressione finale è di una brutalità generalizzata e non circoscritta, dove non esistono buoni o cattivi ma tutti sono più o meno parte dello stesso marciume. Un quadro non certo consolante, ma certamente tutt'altro che coincidente con quel moralismo anti-gay che si vorrebbe imputare al film.  

domenica 16 settembre 2012

1. Come le foglie al vento (Written on the wind, 1956) di Douglas Sirk

E' curioso che Douglas Sirk sia diventato sinonimo, agli occhi del cinefilo comune, di kitsch, effettaccio, enfasi espressiva, insomma di bassa cucina melodrammatica. In Come le foglie al vento non ho trovato nulla di questo: si tratta, all'opposto, di una pellicola sobria e raffinata, a tratti addirittura un po' fredda. Niente a che vedere con Dallas e Dinasty, come butta lì Morandini... Certo: pettinature, gestualità, vestiti, ambienti denotano così chiaramente la propria appartenenza agli anni cinquanta che non si fa fatica a comprendere la venerazione camp di cui Sirk gode e ha goduto presso schiere di registi successivi (per lo più omosessuali), come è indubbio che l'estremismo cromatico del Technicolor raggiunga vette deliranti. Ma sono caratteristiche tipiche di quasi tutto il cinema americano coevo, non sufficienti a giustificare i luoghi comuni che si sono sedimentati sulla figura di Sirk in generale, e su questo film in particolare.
I topoi del melodramma non mancano (scene madri, passioni estreme, morti, gravidanze interrotte...), ma l'approccio è misurato e non si ha mai l'impressione, tipica del genere, di voler ricercare la lacrima a tutti i costi. Sirk cerca all'opposto di raffreddare gli eccessi e di trattare il genere melodramma in un ottica seria e adulta: il concatenarsi degli eventi che porteranno all'inevitabile tragedia è narrativamente robusto e non artificioso, i personaggi sono psicologicamente approfonditi e agiscono più come esseri umani che come figurine bidimensionali.
Abissale, da questo punto di vista, la distanza con i film che Raffaello Matarazzo girava in Italia negli stessi anni: grossolane ma efficacissime fabbriche di lacrime che invece la struttura-melò la esibivano senza troppi orpelli. Come le foglie al vento è evoluto ed elegante nello stile (com'è possibile che Sirk sia stato considerato per decenni un autore di serie B?), nella scrittura, nella recitazione trattenuta dei quattro interpreti principali. Insomma un gran film, che paradossalmente è diventato il simbolo del proprio genere senza averne la caratteristica principale: la visceralità, la capacità di suscitare una forte adesione emotiva.